Position Paper 4

POVERTÁ EDUCATIVA

CURATORI:

MICHELE TRIDENTE | CLAUDIO DI PERNA | ANDREA MORNIROLI | GABRIELLA RASCHI | AURELIA RAIMO | MATTEO SANTINI | ANGELO RIGHETTI

Lettura di contesto Ante Crisi e Post crisi relativamente al tema

Istruzione ed educazione non sono sinonimi bensì due processi di formazione dell’individuo che iniziano con i primi giorni di vita e che dovrebbero accompagnarlo lungo tutto il percorso dell’esistenza.
Mentre l’istruzione mira a conferire o a far acquisire o ad acquisire autonomamente gli elementi per la preparazione culturale e ecnica, l’educazione è un processo complesso attraverso cui il singolo acquisisce, grazie all’intervento di educatori ma non solo, conoscenze e competenze che gli consentono di operare nei vari contesti, di assumere comportamenti adeguati, di elaborare un orizzonte etico, di valutare criticamente se stesso e il proprio contesto con l’obiettivo di migliorarlo.
I due ambiti si toccano spesso ed è evidente che quando si parla di emergenza educativa, spesso si intende fare riferimento ad una difficoltà grave del mondo dell’istruzione formale e informale, ma il focus è sulla difficoltà di trasmissione e riconoscimento di valori, sull’isolamento sociale, sulla incapacità di formulare giudizi critici, su problemi quali la ricerca di senso, l’accettazione di sé e degli altri, l’assenza vera o percepita di valori e di futuro.
Quando si parla di istruzione e di educazione si dovrebbe guardare a tutto l’arco della vita, l’ambito invece a cui ci limitiamo è quello degli anni da 0 a 18, auspicando quella che Edgar Morin definiva una riforma profonda dell’educazione, fondata sulla missione essenziale, che già Rousseau aveva individuato: insegnare a vivere. Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità e il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e le difficoltà
del destino umano.

Il fenomeno della povertà educativa (17) è, dunque, strettamente riconducibile e legato al tema del diritto all’istruzione e allo studio. Gli squilibri sociali e le disuguaglianze economiche spesso affondano le radici proprio in un accesso diseguale all’istruzione. La letteratura sulla mobilità sociale lo indica con chiarezza: la povertà, specie quella minorile, non si può misurare solo in termini monetari.
A parità di condizione economica della famiglia, fa la differenza disporre di servizi di qualità, accessibili a prescindere dal reddito. Nel senso comune, è diffusa la consapevolezza di quanto sia aumentato il numero di poveri in Italia nel corso dell’ultimo decennio. Una consapevolezza che trova riscontro nelle statistiche rilasciate annualmente da Istat. Il numero di poveri assoluti, persone che non possono permettersi le spese minime per uno standard di vita decente è più che raddoppiato nell’arco di un
decennio. Nel 2005 il numero di persone in povertà assoluta era poco inferiore ai 2 milioni. Nei dodici anni successivi è cresciuto fino a raggiungere la quota di 5 milioni di persone. È molto meno diffusa invece la cognizione  di quanto l’aumento della povertà abbia colpito soprattutto i bambini e gli adolescenti. Sono proprio i minori di 18 anni la fascia d’età dove l’incidenza della povertà assoluta è maggiore.
Nel 2005 era assolutamente povero il 3,9% dei minori di 18 anni. Un decennio dopo la percentuale di bambini e adolescenti in povertà è triplicata, e attualmente supera il 12%. Questa crescita esponenziale ha allargato il divario tra le generazioni. Nell’Italia di oggi più una persona è giovane, più è probabile che si trovi in povertà assoluta. Oggi sono i bambini e gli adolescenti i più poveri, seguiti dai giovani adulti, la fascia d’età compresa tra i 18 e i 34 anni. L’Italia ha quindi un enorme problema con la povertà minorile e giovanile da affrontare, e non riguarda solo la condizione economica attuale. Riguarda soprattutto la possibilità di migliorarla nel futuro: la possibilità, anche per chi nasce in una famiglia povera, di avere a disposizione gli strumenti per sottrarsi da adulto alla marginalità sociale.
In Italia, a un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito potrebbero servire cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. È la stima di Ocse, basata sulla variazione tra i redditi dei genitori e quelli dei figli. Pur trattandosi di una stima puramente indicativa, segnala un altro aspetto grave della povertà minorile: la sua tendenza all’ereditarietà. Sebbene non si tratti una caratteristica esclusiva del nostro Paese, la letteratura in materia ha evidenziato, anche nel confronto internazionale, la “scarsa mobilità della società italiana” (Cannari e D’Alessio, 2018).
È altresì evidente che il tema della povertà educativa è legato al mondo del carcere a doppio filo essendo spesso causa e conseguenza della detenzione. I dati ci dicono che i detenuti hanno mediamente un tasso di scolarizzazione più basso rispetto alla società libera. I detenuti nati nelle regioni d’Italia dove più forte è l’incidenza della disoccupazione, sono i più rappresentati negli istituti di pena (Sicilia, Puglia, Campania).
Il risvolto del problema è soprattutto educativo. Le famiglie più povere sono generalmente quelle con minore scolarizzazione. L’incidenza della povertà assoluta è infatti doppia nei nuclei familiari dove la persona di riferimento non ha il diploma. Professione e titolo di studio dei genitori sono fattori che incidono notevolmente nella selezione da parte degli studenti del proprio percorso scolastico. Sono correlati all’abbandono precoce degli studi e contribuiscono a segmentare la popolazione studentesca in base alla classe sociale d’origine.
La dinamica innescata da questi fenomeni è pericolosa, perché tende a riprodurre le disuguaglianze e a inibire la mobilità intergenerazionale. Come in un circolo vizioso, chi nasce in una famiglia in difficoltà economica avrà a disposizione meno strumenti per riscattarsi in futuro da una condizione di marginalità sociale. Sarà più propenso ad abbandonare la scuola prima del tempo, e da adulto avrà più difficoltà a trovare un lavoro stabile. Non si tratta solo un problema di gratificazione personale, ma anche sociale ed economico: si troverà con maggiore probabilità in disoccupazione, dipenderà più della media dai programmi di assistenza. E a sua volta, potrà offrire meno opportunità ai suoi figli, perpetuando questo circolo vizioso.
Anche per queste ragioni la crescita della povertà minorile pone una grande ipoteca sul futuro dell’intero Paese.
Contrastare la povertà nella fascia più giovane della popolazione significa offrire concretamente a tutti i bambini e gli adolescenti, a prescindere dal reddito dei genitori, uguali opportunità educative.
È ineludibile, dunque, un forte investimento sull’educazione, intesa in senso lato, dalla scuola ai servizi rivolti ai minori. Vanno in questa direzione anche le raccomandazioni del rapporto Ocse 2018 sulla mobilità sociale, che per l’Italia indica come priorità garantire l’accesso all’educazione di qualità, dall’asilo all’istruzione terziaria, ai bambini e ai giovani svantaggiati.
Purtroppo il nostro Paese tende a investire meno della media europea in istruzione. L’Italia spende il 3,9% del proprio Pil in istruzione, contro una media Ue del 4,7%. Un dato inferiore rispetto ai maggiori Paesi Ue come  Francia (5,4%), Regno Unito (4,7%), Germania (4,2%).
E con la crisi economica sembra aver disinvestito su questo settore. Tra 2009 e 2012 la spesa pubblica italiana in educazione è passata da oltre 70 miliardi annui a circa 65, cifra su cui si è assestata negli anni successivi. Nello stesso periodo, in Francia è cresciuta da 107 miliardi annui a circa 120; la Germania ha aumentato la spesa in educazione da 100 miliardi a oltre 132. Questi dati non sono un indice della qualità del sistema educativo, ma segnalano comunque scelte diverse da parte dei decisori. Anche dal
punto di vista della composizione della spesa sociale, l’Italia tende a destinare una quota inferiore rispetto agli altri Paesi europei al capitolo dedicato a minori e famiglie.
Possiamo definire questa fase di emergenza, un “durante” a cui nessuno era preparato, né le istituzioni politiche, gli insegnanti, gli educatori e nemmeno le famiglie, travolte dalla caotica e complessa riorganizzazione della vita quotidiana, tra conciliazione lavorativa e gestione dei propri figli. 
Nessuno sa cosa succederà, si alternano informazioni incerte, nessuno sa cosa ci sarà “dopo” e “come” si ritonerà ad una pseudo normalità. In questo “durante” è importante allestire un nuovo orizzonte educativo, partendo dalla didattica a distanza che contiene tante incertezze e difetti, ma sembra perlomeno l’unico rimedio che tampona una situazione emergenziale.
Molti dei progetti in essere e delle esperienze si stanno “attrezzando”: mettono in campo gli strumenti più adatti a questa nuova situazione, a bisogni inediti e mancanze che pesano. Ed ecco che laboratori fisici diventano virtuali, gli educatori trasmettono contenuti e sostegno attraverso un video o un gruppo social, i luoghi fisici che prima erano spazi vitali di gioco e crescita ora vengono sostituiti da richieste di tablet, computer e schede sim per essere connessi. Molte di queste iniziative progettuali sui territori stanno cambiando volto.
Uno degli elementi importanti per la riflessione è quello della perdita di socialità dell’essere umano, nei bambini l’assenza di questo elemento incide negativamente sul suo sviluppo cognitivo e psicologico.
La socializzazione è un fattore educativo importantissimo. I bambini crescono nella condivisione e nella conoscenza con e degli altri, questo diritto adesso è messo duramente alla prova. La scuola non sta mettendo a repentaglio, con la propria indispensabile chiusura, soltanto la preparazione curricolare degli alunni, il raggiungimento di obiettivi didattici e la coerenza con la programmazione annuale, ma soprattutto la potenzialità di sviluppo sociale e relazionale dei minori. Scuola come luogo di sapere ma anche luogo di vita. La chiusura delle scuole si ripercuote in modo drammatico sulle donne, chiamate a gestire pluralità di ruoli e a tenere salda anche la propria condizione lavorativa. Il distanziamento sociale che la pandemia ha provocato si traduce in povertà educativa, incremento della forbice della diseguaglianza e delle disparità. Cambia il modo di stare a scuola, una prima condizione è quella di tentare la riduzione dei numeri di presenze; un’altra è il monitoraggio costante delle condizioni sanitarie degli operatori, dei docenti e delle loro famiglie. 
Sulla didattica online, è stato detto e scritto molto: è il luogo di conflitto tra genitori e insegnanti che rischiano di  cadere in una trappola, e si dividono. È evidente in questo periodo la centralità del ruolo dei genitori, perché con la didattica a distanza non lavorano solo gli insegnanti, lavorano anche i genitori che aiutano i bambini, almeno nella scuola primaria: sono genitori che già rischiano di perdere il lavoro e che saranno presto costretti a scegliere tra prendersi cura dei figli o andare a lavoro Proliferano piattaforme, connessioni, videoconferenze: potrebbero diventare non-luoghi, se non sono adeguatamente accompagnati da una relazione personale, orientata a creare comunità Rischia di crearsi quel modo di fare educazione che Paulo Freire avrebbe criticato ferocemente: si configura come un travaso di dati unidirezionale, generando un modello di educazione “depositaria e bancaria”.
In questo periodo di emergenza, la tecnologia e la didattica a distanza sono strumenti importanti e necessari, ma che non possono sostituirsi ordinariamente all’azione della didattica che è tempo e spazio insieme.
È cambiato in modo sostanziale il setting di apprendimento: cambiano le competenze richieste agli insegnanti per gestire il lavoro con una classe virtuale. Le competenze digitali sono determinanti. È mutata la dimensione degli spazi e dei tempi. Parafrasando Kant, possiamo dire che spazio e tempo, nell’apprendimento, indipendentemente che esso sia a distanza, condizionano ogni nostra
esperienza sensibile in quanto le esperienze didattiche, anche se su piattaforma, ci sono presentate sempre situate all’interno di uno spazio e di un tempo

Il tempo è una variabile educativa

Notiamo una duplice connotazione di questo elemento: da un lato il tempo di questo periodo genera un’educazione “accelerata” da una parte e tempi più distesi capaci di promuovere la “lentezza”. Perché se è vero che l’evoluzione e il progresso tecnologico e la società globalizzata richiedono un’educazione sempre più accelerata, dall’altra il tempo scuola, in questo momento storico del Covid-19 l’accelerazione cede il passo alla decelerazione dei tempi perché l’apprendimento, oggi più di prima richiede il suo tempo.
Quando entriamo in una classe e osserviamo gli elementi notiamo subito il modo in cui è organizzato lo spazio, la disposizione dei banchi, il colore delle pareti, la posizione della cattedra rispetto ai banchi: sono elementi che ci veicolano immediatamente un certo modo di pensare l’insegnamento e una specifica cultura didattica.

Oggi il ruolo dello spazio tende a comprimersi, o meglio, a virtualizzarsi. I banchi sono icone sullo schermo, le pareti sono diventate l’hardware del pc, la cattedra è diventata l’icona che perimetra il docente sulla piattaforma. Maria Montessori sosteneva che “gli spazi d’aula dovrebbero essere polifunzionali, nel senso di consentire lo studio e il lavoro individuale e di gruppo, la comunicazione interpersonale, il momento corale ma anche l’isolamento, la sperimentazione del nuovo e l’approfondimento specializzato del già acquisito. Dovrebbero essere inoltre ordinati, non solo in termini di comfort e gradevolezza, ma nel senso di sistemati e organizzati per aree didattiche, in modo da far percepire le connessioni tra i singoli ambiti. Così le discipline, tutte le discipline, diventano vive e attive perché corrispondono ai vari ‘punti di vista’ da cui analizzare l’argomento che si sta trattando e/o si deve studiare”. Tutto questo, adesso, non è percorribile.
Zavalloni parla di “pedagogia della lumaca” e Domènech Franchesch aveva formulato 15 principi per un educazione lenta, sostenendo che “l’educazione, è un viaggio lento con molte fermate nel quale, attraverso una moltitudine di situazioni, le persone compiono un processo che le aiuta a crescere sul piano emotivo e intellettuale. L’educazione che si realizza in profondità, che porta alla comprensione dei fenomeni e del mondo, e che va oltre una semplice trasmissione, è dilatata nel tempo”.
Il problema delle tecnologie è che esse “ragionano” in modo semplificato, il nostro mondo si è adattato “a misura delle tecnologie”, ma le persone non possono solo eseguire meccanicamente una prestazione, perché inevitabilmente vi apportano emozioni, pensieri, intelligenza, che producono costantemente ripensamenti, divergenze
e creazioni. Il connubio di immaterialità e velocità, conferisce all’essere umano il “delirio di onnipotenza”, ed esclude fortemente il corpo e il tempo, negando la nostra specificità, ossia la fragilità e i limiti ineludibili.

La scuola uscirà molto trasformata da questa esperienza. In molte case non ci sono Wifi, pc e stampanti, e quando si chiede di fare una ricerca a casa, per molti studenti è molto difficoltoso. La questione della scuola che deve essere tecnologica in tempo di Covid, ha reso evidenti le criticità delle dotazioni tecnologiche delle famiglie, ed ha nel contempo evidenziato la forbice delle diseguaglianze: il divario tra città e aree interne, tra ricchi e poveri, tra connessi e non connessi. 
Ma al di là di strumenti, forme e linguaggi, la relazione viene mantenuta dove la scelta di fondo, della scuola
come delle organizzazioni del privato sociale, è quella di non rintanarsi nel consolidato, nelle cornici troppo strette di metodi, didattiche e metodologie più rassicuranti perché conosciute e tradizionali ma che oggi, di fronte allo stravolgimento di quadro generale provocato dal virus rischiano di passare da abilità a disabilità. Utilizzando la crisi per rompere alcune rigidità o separazioni che già limitano la scuola nella normalità.

In altre parole, sono le situazioni dove fin da subito è stata chiara la consapevolezza di dover oggi affiancare alla priorità del tenere in vita competenze e talenti di base anche quella di alimentare un legame emotivo con la scuola, con il tempo e lo spazio scuola. Dove da subito ci si è fatti carico di ricucire lo strappo tra istruzione ed educazione. Consapevoli che questo è possibile solo se si comunica vicinanza, l’esserci, spesso in setting non definiti, che rompono l’incantesimo rassicurante della cattedra e nello stesso tempo mettono in discussione la retorica dell’innovazione che la durezza dell’attuale condizione smaschera in tutta la sua leggerezza

Proposte

1. Provare a ripensare la scuola, come Officina di comunità

Quello che in qualche modo l’emergenza ci invita a fare è da un lato lavorare sull’immaginare la “nuova scuola” rendendola capace di accogliere tutti e tutte e in particolare di migliorare l’accoglienza verso quelle alunne e quegli alunni che fanno più fatica. Le cui sofferenze, a volte, sono troppo forti per riuscire a essere contenute in cornici e regole troppo strette. D’altro lato di misurare la scuola  e più in generale la comunità educante tutta, come propone Vito Mancuso, sul suo essere in grado di “educare persone alla libertà”, trovando in questo coerenza con la sua funzione repubblicana.

In Italia abbiamo il grande disagio di interi plessi scolastici che non costituiscono un bene comune per la crescita dei giovani se non nella forma dell’istruzione formale. Le strutture scolastiche hanno una precisa vocazione formale, esaurita la quale la comunità scolastica si muove con enorme difficoltà. Non sono poche le testimonianze di docenti appassionati della loro mission educativa che sono però costretti a fare volontariato a favore dei giovani in condizioni di svantaggio sociale “fuori” dalla scuola. Tra questi ci sono tanti ragazzi e giovani portatori di handicap, la cui presenza è un dono per le classi di cui fanno parte.
“Fuori” sia dal punto di vista della comunità scolastica che dal punto di vista strettamente scolastico. Viviamo il paradosso di avere dei centri di doposcuola che si reggono sul volontariato e si adattano a spazi angusti ed improvvisate messi a disposizione da parrocchie ed associazioni varie, mentre tutte le aule multimediali dei plessi scolastici sonnecchiano nel pomeriggio. Si vive nel paradosso che le famiglie con evidenti problematiche correlate alla formazione scolastica dei figli si sentano sole nel pomeriggio mentre la comunità scolastica è magari funzionante per un corso di approfondimento o un laboratorio.

Un genitore italiano non ha alcuna abitudine nel chiedere “aiuto” alla scuola per le difficoltà pomeridiane del proprio figlio, né sente la scuola come un luogo “amico” per affrontare il disagio familiare connesso a sistemi di povertà e di precarietà esistenziale. La scuola viene invece comunemente avvertita come un ufficio autoritario ed autorevole in cui la famiglia è chiamata ad “essere al passo” e quando non è al passo si percepisce come “estromessa”.
Non è un caso che viviamo negli ultimi venti anni gli indici di drop-out più allarmanti dall’inizio della storia repubblicana, perché nella società complessa e liquida non basta svolgere una funzione formale per incidere nelle esistenze delle famiglie e delle persone, occorre “essere con”, costruire “legami”, progettare risposte ai bisogni complessi.

Una scuola ancora incentrata sugli strumenti: Voto/Colloqui/Sospensione/Nota disciplinare, per poter sanzionare i comportamenti scorretti o irregolari dei ragazzi, è una scuola che marca una distanza netta dalle famiglie più difficili, quelle i cui ragazzi portano voti bassi a casa e la cui complessità personologica e progettuale richiede una vera “presa in carico” che non si può demandare ad ancora un altro “ufficio”, ma che deve generare risposte nell’ambiente privilegiato vissuto dal ragazzo, la scuola.
Per operare questo cambiamento ci sono stati input importanti negli ultimi anni, in particolare con le tante misure regionali di Scuole Aperte e con i Laboratori e l’Animazione Digitale, ma di fronte alla sciagura della pandemia dobbiamo dirci con onestà che la diga non ha retto. Nelle regioni più difficili d’Italia e nei quartieri più difficili delle città sono “scomparsi” quattro ragazzi su dieci semplicemente perché non avevano una buona connessione domestica, un buon device o perché non hanno sentito alcun
bisogno di “restare in contatto” con la comunità scolastica una volta che il plesso era chiuso.
Chiusa l’esperienza formale della scuola, migliaia di ragazzi hanno dimostrato un’immediata disaffezione alla comunità scolastica, annaspando in un drop-out tecnologico. Ma anche molte comunità scolastiche hanno vissuto lo stesso drop-out verso gli studenti, quando i docenti ed il personale non hanno fatto tutti gli sforzi possibili per andare a cercare i dispersi nelle case o negli ambienti in cui erano relegati durante il lockdown.
Ora che si parla di rilancio e di ripresa bisognerà tenere a mente che non andare al teatro o al cinema, non avere spazi sportivi accessibili, non avere libri in casa e non poter disporre di una buona connessione domestica e di un buon device, non sono effetti della pandemia ma una condizione ordinaria per milioni di ragazzi in condizioni di “povertà educativa”.
Per ridurre il gap più che pensare alle azioni che la scuola dovrebbe mettere in campo bisognerebbe pensare alla scuola sempre più come “luogo di relazioni”, da un ufficio per l’istruzione formale ad un’officina per la Comunità. Il pomeriggio i plessi scolastici dovrebbero continuare ad essere funzionali per le esigenze ricreative, formative e sportive dei ragazzi, le famiglie dovrebbero potersi incontrare per convivere in spazi comunitari e supportarsi a vicenda nel difficilissimo compito educativo nella società complessa, i docenti potrebbero esercitare nella scuola il proprio volontariato che oggi esercitano altrove, come spazio di cittadinanza attiva.

Una riforma post-pandemica dovrebbe prevedere la corresponsabilità tra scuola e famiglie e soggetti del Terzo settore nell’apertura diurna dei plessi scolastici e nell’offerta gratuita di spazi di socializzazione per i minori. Oggi questa corresponsabilità sembra essere impedita da un atteggiamento securitario ed amministrativistico che non consente di poter “dividere” le responsabilità, sappiamo però che con lo strumento giuridico della cogestione, attraverso disciplinari chiari, questa corresponsabilità è possibile e praticabile. Bisognerebbe ripartire da qui, facendo divenire una scuola una vera comunità di relazioni anche oltre il compito dell’insegnare e dell’istruire.

2. Sperimentazione nazionale del metodo innovativo dei Budget Educativi

In risposta all’emergenza Covid-19 si propone di estendere a livello nazionale per l’anno scolastico 2020/2021 la  sperimentazione del metodo innovativo dei Budget Educativi al fine di promuovere un dialogo vivo e proattivo tra  scuole, territorio e comunità educante. Tale metodo intende eliminare il confine tra “dentro e fuori” la scuola, ricucendo il rapporto tra campanella di entrata e di uscita, sfumando il divario tra scuola, comunità adulta e territorio.

3. Scongiurare la segregazione scolastica ed investire sull’integrazione tra alunni autoctoni e stranieri nella scuola dell’obbligo

In tema di povertà educativa è doveroso ed importante non trascurare il grande rischio di una scuola che non investa autenticamente e strutturalmente sull’integrazione tra alunni italiani ed alunni di origine straniera.
Che la scuola italiana, soprattutto quella dell’obbligo, sia aperta a tutti sembra un fatto acquisito. È meno scontato, tuttavia, che questa apertura sia ovunque la stessa. Nel dove si accede – in quale istituto scolastico, con quali insegnati e con quali compagni di scuola – la discriminazione, infatti, purtroppo ricompare (…) accade che persone con background sociali e/o etnici diversi entrino nella scuola da accessi differenti e separati(18).

Senza un vero intervento pubblico, l’integrazione non avverrà, anzi verrà progressivamente ostacolata da una falsa convinzione che oggi sembra essere condivisa dai più: le scuole italiane frequentate da alunni stranieri sono meno performanti delle scuole in cui vi sono solo bambini e giovani italiani. È così radicata questa falsa convinzione che in una recente indagine fatta sui distretti scolastici della città di Milano sono venuti fuori dei trend di segregazione scolastica davvero allarmanti: “Il 50% dei bambini di Milano frequenta scuole fuori dal proprio bacino di utenza, un dato che segnala una massiccia fuga degli italiani dalle scuole collocate in territori a maggior concentrazione di bambini di famiglie svantaggiate e di famiglie immigrate. A Milano un alunno su quattro è di origine straniera, ma un alunno italiano su quattro frequenta scuole private (con pochi o nessun alunno straniero), un
dato nettamente superiore alla media nazionale. Proprio in quella scuola che si chiama dell’obbligo e che dovrebbe garantire equità di trattamento e promuovere apertura e coesione sociale si assiste invece, da diversi anni, a una forma di “segregazione scolastica”.(19)

Riteniamo che tale fenomeno sia frutto di una cultura dell’integrazione che ancora si concentra su un welfare assistenziale, in cui il diritto allo studio degli stranieri sia praticato ed affermato come forma “di favore assistenziale” ad una classe di persone svantaggiate, vulnerabili, e non come un asset strategico per la formazione futura dei nuovi italiani e di arricchimento reciproco “un modo di pensare difensivo, l’idea di integrazione come aiuto ai più deboli: bisogna accoglierli, insegnare la lingua, orientarli. Un’idea da “assistenza sociale”, da continua emergenza, e in parte è anche così, ma non tutti sono fragili. Molti conoscono le lingue e il mondo meglio di noi e dei “nostri” studenti, sanno resistere e adattarsi, portano punti di vista differenti sulla scuola e l’educazione e da parte delle loro famiglie c’è una fiducia nella scuola e una speranza nel futuro che noi abbiamo perso. Alcuni esempi: spesso sono più bravi in inglese dei loro compagni di classe, inoltre la maggioranza degli studenti stranieri immatricolati
all’università proviene dalle scuole italiane (e non dall’estero) e una percentuale significativa ha frequentato isttuti tecnici e professionali”20. I dati delle prove Invalsi ed i dati del ministero dell’Istruzione ci restituiscono un quadro molto diverso dalle preoccupazioni diffuse dei genitori italiani: gli alunni stranieri sono molto più bravi ad imparare le lingue ed hanno migliori rapporti con i docenti, hanno nel contempo maggiori difficoltà nella lingua italiana e nella matematica ed un “ritardo scolastico” più accentuato, un terzo degli allievi di origine non italiana a 14 anni è in ritardo di uno o più anni nei confronti dei compagni di scuola italiani.

La gestione di questo fenomeno complesso non può dunque essere lasciata all’improvvisazione ed allo spontaneismo dei territori, si rischia il vero crollo della coesione sociale. I numeri non mentono a riguardo:
1. Trent’anni fa, l’anno scolastico 1989-1990 iniziava con 18.474 alunni stranieri, al primo posto i bambini ed i ragazzi provenienti dal Marocco. Oggi sono più di 850mila, in grande maggioranza nati in Italia, al primo posto gli alunni di origini romena21;
2. Negli ultimi cinque anni ci sono stati 240mila alunni italiani in meno. E da uno studio della Fondazione Agnelli sull’evoluzione della popolazione scolastica risulta che nei prossimi dieci anni si prevede un milione di studenti in meno: una classe ogni dieci scomparirà. Le cause, oltre al flusso migratorio che si è ridotto, sono la diminuita natalità degli italiani e la minore propensione alla natalità anche da parte della popolazione immigrata, che si sta adattando ed uniformando ai nostri stili di vita.

Continuare questa forma silenziosa di segregazione scolastica è dunque una delle minacce più importanti del futuro della povertà educativa, una minaccia che non viene per nulla percepita dalle scuole pubbliche come tale, tanto che non mancano casi in cui ci sono scuole superiori che in aperta competizione per “aumentare iscrizioni” ricorrono anche a rassicurazioni raccapriccianti sui loro siti internet, in cui dichiarano di non avere alunni problematici iscritti (stranieri e disabili).
Un nuovo welfare scolastico deve con urgenza favorire investimenti sull’interculturalismo “quale modello di integrazione che si fonda sul dialogo tra le differenti culture, attraverso un atteggiamento di reciproca apertura e un attenzione alla dinamicità delle trasformazioni culturali volto a dar vita ad una nuova cultura meticcia”(22).
La premessa indispensabile del progetto interculturale consiste proprio nel primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità: la soggettività della persona diventa il fondamento del rapporto di convivenza. “In questa prospettiva le culture differenti sono chiamate a ricercare, condividere e far proprio un nucleo di valori ritenuti irrinunciabili, che in quanto tali valgono per tutti gli esseri umani, come la libertà, la dignità e il rispetto della vita. Ed è proprio intorno a questi valori che si gioca la sfida interculturale nel senso che l’accoglimento e il rispetto di questi valori è il presupposto irrinunciabile per intraprendere un percorso di integrazione”(23).

4. La società civile al centro

Non potendo pensare di intervenire solo in ambito scolastico, ma anche al di fuori del contesto didattico. I bambini, infatti, necessitano e hanno bisogno anche di apprendimento informale. In questo quadro, la società civile gioca un ruolo determinante. Un’alleanza tra insegnanti e educatori è in questo momento importantissima; si può pensare a una sinergia tra contesto scuola e contesto associativo, in cui le organizzazioni operano negli orari pomeridiani con attività ludiche e ricreative.

5. Dare valore al lavoro degli educatori e delle educatrici del privato sociale

Nel supporto agli insegnanti su tematiche quali l’uso del pc, modelli di relazione, ascolto e accompagnamento, per creare e manutenere le relazioni tra scuole e ragazzi/e creando a tal fine partenariati territoriali secondo modelli partecipativi.
Occorre porsi anche il problema di come assicurare continuità di apprendimento ai bambini con difficoltà di apprendimento e bisogni educativi speciali.

6. Potenziare il prezioso sistema del Servizio Civile Universale

Valorizzare il prezioso servizio dei volontari nelle attività a sostegno degli anziani, minori e famiglie in un’ottica di rafforzamento della comunità educante. Vanno definite bene però le azioni e sarà fondamentale la formazione ad essi rivolta. L’attivazione di sinergie e iniziative congiunte, sensate, con altri strumenti programmatici è importante in questo periodo, al fine di evitare sovrapposizione di finanziamenti.

7. Investimento alla fascia di età 0-6 anni. La povertà educativa inizia dall’asilo nido (24)

È nella prima infanzia che si creano i presupposti per ciò che il bambino apprenderà nel corso della sua vita. Un ambiente ricco di stimoli positivi offre maggiori possibilità di crescita, attraverso le relazioni con i coetanei, il gioco, lo sviluppo della propria creatività e personalità. Avere accesso o meno a queste opportunità ha conseguenze decisive sul futuro del minore. Adesso, il Covid19 ha provocato soprattutto per la primissima infanzia degli ostacoli significativi. Occorre pensare soprattutto ai bambini della prima infanzia, proponendo servizi educativi rinnovati e ragionati. È necessario avanzare proposte innovative che sfuggano alla classificazione della “custodia” e della pre-scolarizzazione a favore della valorizzazione dell’informalità delle esperienze proposte; Si evidenzia anche l’accentuato carattere di molta maggiore flessibilità (organizzativa e umana) che la risposta ai bisogni di bambini/e da un lato e di famiglie dall’altro, richiedono per questa fascia di età.

– Rispetto alla specificità della fascia 0-3 di seguito alcuni spunti operativi e linee di intervento percorribili:
1. potenziamento della proposta della rete di servizi educativi ed integrativi, mediante lo snellimento di procedure autorizzative relative ai servizi di prossimità familiare (nidi familiari, micro nidi e tagesmutter) che possano garantire il raggiungimento della sogliadel 33% che l’Unione europea aveva stabilito come tetto da raggiungere entro il decennio scorso (2010);
2. nidi di condominio, per creare gruppi ristretti di massimo 3 – 4 bimbi con una educatrice part-time condivisa da poche famiglie dello stesso condominio.

– Rispetto alla specificità della fascia 0-6 di seguito alcuni spunti operativi e linee di intervento percorribili:
1. utilizzo degli spazi all’aperto, con possibilità di accesso contingentato e controllato (parchi gioco, cortili delle scuole e dei servizi educativi, sociali e istituzionali, aree verdi di condominio, ecc.), con orari diversificati per fasce d’età, prevedendo tutte le misure igienico-sanitarie indicate dalle direttive ministeriali e regionali;
2. servizi domiciliari con educatori qualificati, soprattutto per i bambini più fragili che hanno delle disabilità o vivono in ambienti inadeguati e poveri di attenzioni e opportunità;
3. servizi di condominio, “maestri di condominio” per creare gruppi ristretti di massimo 3 – 4 bimbi con un’educatrice part-time condivisa da poche famiglie dello stesso condominio;
4. servizi di prossimità: a) Promozione e sostegno di forme di Mutuo aiuto tra famiglie, per offrire loro supporto con educatori ed ausili pedagogici b) Educativa familiare di prossimità ovvero Centri Famiglia e servizi di cultura ludica pensati in termini di micro comunità familiari, un insieme di nuclei familiari che afferiscono ai servizi mappate e con accessi sequenziali per evitare il contagio c) prossimità nei luoghi di lavoro, almeno in alcuni, per garantire delle possibilità di microcomunità da cui i bambini e le
famiglie abbiano modo di ripartire;
5. outdoor education. Sperimentare molte lezioni all’aperto, uscite sul territorio per attività di esplorazione della natura, progetti di orti scolastici o in cassetta e attività ludico-motorie in aree all’aperto;
6. servizi itineranti nelle periferie: costruire occasioni di animazione ludico-motoria nei cortili delle case popolari, nelle aree verdi, nei cortili delle scuole, nelle palestre o altri spazi di grandi dimensioni che consentono distanze di sicurezza e momenti di socializzazione “protetta” per bambini e genitori con i ludobus e i bibliobus;
7. formazione per educatori e insegnanti: la scuola e i servizi educativi di fronte all’emergenza sanitaria hanno dimostrato grandissime differenze nella capacità di gestire la didattica a distanza sia tra gli alunni che tra i docenti, mancanza di infrastrutture pubbliche adeguate (banda larga, piattaforme didattiche digitali, ecc.) e di connessioni domestiche, nonché disomogenea distribuzione tra la popolazione dei dispositivi necessari. E, anche, inadeguatezza dell’insegnamento a distanza.

8. Gli adolescenti

Adottare lo strumento dei Budget Educativi, da attivare con le scuole mediante Progetti Formativi Personalizzati che possano ricucire il rapporto tra campanella di entrata e campanella di uscita, provando a sfumare il confine tra scuola e territorio.
Mediante i Budget Educativi si possono garantire:
1. una maggiore attenzione dell’educazione al movimento: riaffermare con forza il ruolo e il valore dell’attività fisica e sportiva, sia per la crescita individuale psico-fisica, sia come attività essenziale di contrasto e prevenzione alla dispersione scolastica.
In Italia l’educazione fisica continua ad essere trascurata: basti pensare che un allievo termina il suo curriculum scolastico con circa 500 ore di attività fisica, esattamente la metà della media europea che di ore ne annovera più di 1.000. Le attività sportive extrascolastiche non sono d’altra parte alla portata di tutti: in Italia circa il 75% della spesa sportiva è a carico della famiglia;(25)
2. sarà importante valorizzare l’educazione motoria, con il raggiungimento di almeno 1000 ore di educazione fisica al termine del curriculum scolastico individuale e garantendo l’inserimento dell’educazione fisica nel curriculum scolastico obbligatorio della scuola primaria;(26)
3. una maggiore valorizzazione dell’educazione musicale e artistica: rafforzare la formazione artistica, proprio in considerazione del valore aggiunto che l’educazione artistica e musicale riveste nei processi di apprendimento e formazione della persona, la via maestra appare quella di rendere davvero effettivi – per tempo dedicato, organizzazione, strutture e strumenti attivati – gli obiettivi e le competenze troppo spesso disattese, per queste discipline;
4. potenziare i percorsi di orientamento alle scelte professionali;
5. a partire dalle attitudini, gli interessi, le vocazioni dei ragazzi e dei territori, potenziare i percorsi di orientamento professionale tra gli adolescenti, mediante incontri con aziende, favorendo percorsi di formazione e avvicinamento al mondo del lavoro.