Position Paper 5

AGRICOLTURA INCLUSIVA

CURATORI:

SALVATORE CACCIOLA | STEFANO FRISOLI | PAOLA TRIONFI | VINCENZO VIZIOLI | FRANCESCO GIANGREGORIO | SIBYLLE RIGHETTI | ENRICO VIANELLO ANGELO RIGHETTI | MAURIZIO BERGIA

Questa crisi sta incidendo pesantemente sulle aziende agricole, sui lavoratori e sull’intera filiera agro alimentare. Siamo convinti che sia opportuno consolidare ed estendere i diritti di chi lavora in agricoltura anziché riproporre vecchie soluzioni che avoriscono forme di schiavitù dei migranti. Questa nuova fase sociale ed economica offre un’inedita possibilità di lottare contro le forme di sfruttamento del lavoro agricolo (caporalato e agro-mafie) e impone una rinnovata capacità di coesione sociale, attuando pienamente le norme esistenti (vedi ad esempio la Legge 199/2016) per giungere alla regolarizzazione del lavoro agricolo in alcune regioni prevalentemente sotto il controllo dei caporali e delle mafie.
È necessario incentivare le aziende agricole che si fanno promotrici di un approccio agro-ecologico e di sostenibilità ambientale. Il sostegno e la valorizzazione delle filiere a corto raggio, delle forme di consumo critico e solidale, delle molteplici esperienze di agricoltura sociale.

Pandemia e crisi del modello di sviluppo

In un recente saggio Miguel Antonio Altieri (Berkeley University of California) e Clara Ines Nicholls (Centro Latino Americano di ricerche agro-ecologiche – Celia) sostengono che “la maggior parte degli attuali problemi globali quali: carenze energetiche, carsità di acqua, degrado ambientale, cambiamenti climatici, disuguaglianze economiche, insicurezza alimentare ed altri ancora, non possono essere affrontati isolatamente perché essi sono interconnessi ed interdipendenti. Quando qualcuno di questi problemi si aggrava, gli effetti si diffondono in tutto il sistema esasperando gli altri problemi”.

L’agroecologia fornisce un esemplare indirizzo di un efficace approccio sistemico e, in questi tempi di pandemia di Coronavirus, essa può essere d’aiuto per esplorare ulteriormente i legami tra salute e agricoltura, perché, se essa viene realizzata ancora in modo sbagliato, può causare ancora danni maggiori alla salute. L’agroecologia promuove il recupero dei territori nei quali sono allocati i sistemi agricoli, arricchisce l’ecologia e le sue funzioni del controllo naturale dei parassiti, conservazione del suolo e dell’acqua, etc., ed inoltre crea delle “linee di sbarramento ecologiche” che possono aiutare a contenere la diffusione dei patogeni.
Numerosi sono ormai i documenti internazionali che sostengo la necessità di un nuovo modello di sviluppo non centrato sullo sfruttamento intensivo della terra e su un’agricoltura convenzionale ormai al collasso. Il riferimento ai 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030, agli obiettivi della strategia Paa Eu del VII Piano d’Azione Ambientale europeo (2014-2020), integrata con le finalità e gli obiettivi della “Rete Natura 2000”, ai principi etici, sociali ed economici dell’Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco, alle linee guida dell’agricoltura biologica 3.0 dell’Ifoam e al Green New Deal Europeo, risultano delle indicazioni strategiche per avviare la costruzione di un nuovo modello di sviluppo e di agricoltura.

Le aziende bio in Italia

Dal sondaggio della Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica e biodinamica (Firab), per le associazioni del biologico emerge che tre quarti delle aziende bio, il 73%, è stata investita dalla crisi legata alla pandemia.
In termini di liquidità, per oltre due aziende su tre, il 65%, la tenuta economica è al massimo di tre mesi. Le difficoltà maggiori sono state incontrate dai produttori legati ai canali di distribuzione che prevedono maggiore mobilità delle persone, come il raggiungimento delle aziende che praticano vendita diretta, o di socializzazione, come l’Ho.Re.Ca (settore alberghiero, ristorazione, bar, coi quali collaborano un terzo dei rispondenti) e altre forme di ristorazione. Un impatto significativo in alcune aree del Paese è dovuto all’impedimento di tenere mercatini e fiere, fondamentali per il 24% degli intervistati. Tutto ciò considerato che il 66,3% delle realtà ha operato in passato anche in vendita diretta, il 27% tramite cooperativa/consorzio, attraverso i gruppi di acquisto solidale (Gas) il 22% dei rispondenti.

Le strategie
Tra le aziende che hanno stimato di poter resistere ancora un anno, poco meno del 10%, a prescindere dalla classe di fatturato, molte hanno registrato un aumento delle richieste online e della consegna a domicilio. I dati del sondaggio evidenziano come siano le medio-grandi imprese, a fronte di una capacità tempestiva di riorganizzare il proprio business, ad avere più strumenti per garantire una maggior tenuta. Il 16 % delle aziende si avvale appunto dell’e-commerce.
Le aziende agricole biologiche hanno, in primo luogo bisogno di ascolto, come testimonia l’ampia adesione a questo sondaggio. Le esigenze dei produttori biologici vanno comprese e servono misure adeguate, se si vuole salvare un comparto fondamentale per una Fase 2 “green”.
Come rilevato anche dal sondaggio che Firab sta facendo sull’impatto del Covid-19 sulle aziende bio, molte di queste si trovano in grande difficoltà, con la necessità di avere liquidità per la sopravvivenza.
Il Governo sta cercando in tutti i modi, di intervenire, facendo revisioni di bilancio e chiedendo soldi all’Ue, cosa giusta e meritoria ma ci domandiamo anche perché i fondi che sono disponibili del Psr, che non creano debito e sono dovuti alle aziende, non vengono sbloccati. Ci sono aziende che attendano il contributo dall’Ente pagatore regionale e da Agea, sicuramente da molto più di un anno.
C’è un problema di assurda burocrazia che permette agli Uffici regionali che fanno le istruttorie per l’Ente pagatore che esclusa qualche Regione è per tutti Agea, di rimpallarsi le responsabilità dei ritardi.

La proposta
In questa situazione di emergenza va chiesto con forza che le Regioni sblocchino le pratiche e il ministero costringa Agea a effettuare i pagamenti. Se l’obiezione alla liquidazione ed attivazione immediata delle misure del Psr fosse: “l’Ue ci chiede di controllare”, allora si eroghi almeno l’80% di quanto dovuto saldando il restante ad istruttoria conclusa. Le aziende non possono più attendere.
Chiediamo dunque che venga snellita la procedura burocratica per garantire la fruizione dei fondi messi a disposizione per l’uscita dall’emergenza economica e sociale. Oltre alla liquidità necessaria subito, che comporta solo un’azione di snellimento burocratico e organizzativo: si renda immediatamente efficace l’erogazione di risorse della Politica agricola comunitaria (Pac) e del Programma  di sviluppo rurale (Psr) già a bilancio, che non derivano da prestiti o debiti per Stato o Regioni.

Si allarga la platea dei soggetti svantaggiati

Una prima rilevazione condotta a livello nazionale su 70 Caritas diocesane in tutta Italia, rileva un aumento in media del +114% nel numero di nuove persone che si rivolgono ai Centri di ascolto e ai servizi delle Caritas diocesane rispetto al periodo di pre-emergenza Coronavirus.

Le Caritas diocesane interpellate hanno evidenziato, nella quasi totalità dei casi, un aumento nelle segnalazioni dei problemi di occupazione/lavoro e di quelli economici. Il 75,7% di esse segnala anche un incremento dei problemi familiari, il 62,8% di quelli d’istruzione, il 60% di salute, anche in termini di disagio psicologico e psichico, e in termini abitativi. Vengono poi indicati anche nuovi bisogni, come quelli legati a problemi di solitudine, relazionali, anche con risvolti conflittuali, ansie e paure, disorientamento e disinformazione. Allo stesso tempo, si registra un aumento rispetto alle richieste di beni e servizi materiali – in
particolare cibo e beni di prima necessità, con la distribuzione di pasti da asporto/a domicilio, sussidi e aiuti economici a supporto della spesa o del pagamento di bollette e affitti, sostegno socio-assistenziale, lavoro e alloggio.
Cresce anche la domanda di orientamento riguardo all’accesso alle misure di sostegno, anzitutto pubbliche, messe in campo per fronteggiare l’emergenza sanitaria, di aiuto nella compilazione di queste domande e la richiesta di dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti, etc.), che sono già stati distribuiti a circa 40.000 beneficiari.

La situazione pandemica ha messo in evidenza una situazione legata al concetto di “svantaggio sociale” e alle sue categorizzazioni che presenta notevoli discrepanze con la realtà dei territori. La precarizzazione del mercato del lavoro nasce da logiche economiche complesse ma è un elemento oramai di tutta evidenza. Molte sono le espressioni di questo fenomeno, i working poor che lavorano full time ma non riescono ad avere un reddito sufficiente alla fine del mese, i disoccupati di lunga durata con una serie di definizioni molto diverse da loro come cassaintegrati, in mobilità, a lavoro ridotto, in contratto di solidarietà, forme diverse ma che esprimono uguale disagio sociale e una impossibilità a costruire sostenibilità economica per le loro famiglie. A queste persone si sommano tutti coloro che rimangono fuori dai contenitori istituzionalizzati o perché non ne hanno il diritto o la possibilità concreta (per esempio chi non ha il permesso di soggiorno). Per queste persone si aprono le porte del lavoro nero, senza diritti e coperture sociali, con tutte le ricadute relazionali che questo comporta. A fronte di questa molteplicità di situazioni la legge registra un concetto di “soggetto svantaggiato”, ampiamente superato dalla situazione attuale. Le cooperative sociali che nascono per incrociare le difficoltà socio-professionali si ritrovano ad inserire persone con il “bollino” ma non tante altre senza le caratteristiche di legge necessarie.

Il fenomeno migratorio e il caporalato

I dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto registrano che il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura è pari al 39%, che più del 50% delle aziende controllate (nel 2017) hanno presentato irregolarità e che il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura è di 4,8 miliardi con di 1,8 miliardi di evasione contributiva.

Osservando questi dati è facile dedurre come non ci sono produzioni agricole che non si giovino del contributo di lavoratori stranieri, spesso senza diritti e in condizioni di vita disumane. Nessuna regione esclusa. Dai lavoratori dell’est Europa che raccolgono le mele in Trentino, ai mungitori Sik della pianura padana che portano avanti la produzione di parmigiano e grana, dai pastori slavi in appennino, ai raccoglitori africani di agrumi, pomodori e altri ortaggi al centro sud e così via, passando per regioni
insospettabili, come la Toscana, che si piazza al secondo posto per presenza di caporalato.
L’agricoltura italiana, così come quella europea non può fare a meno di questi lavoratori. Riconoscere questa semplice e inequivocabile realtà, sarebbe un grande segno di civiltà politica. Per ridare dignità a persone che fanno parte a pieno titolo del nostro sistema produttivo. 
Per non parlare del fatto che le aziende che sfruttano questi lavoratori prendono i contributi della Pac (Politica Agricola Comune) e del Psr (Piani di Sviluppo Regionale). Così come sono complici i grandi marchi e la grande distribuzione organizzata (Gdo) se non decidono di attuare sistemi di garanzia sulla provenienza dei prodotti e di aiutare con indicazioni chiare i consumatori a fare scelte più consapevoli.

L’emergenza sanitaria ha reso ancora più evidente (semmai ce ne fosse bisogno) quanto è importante la produzione di cibo e quindi la manodopera in agricoltura. È necessario rivedere il concetto di “soggetto svantaggiato” alla luce di una mutata condizione socio-economica che il recente lockdown ha drammaticamente evidenziato, per poter dare risposta a quelle fasce di popolazione marginalizzata dai processi di inclusione socio-lavorativa. È giunta finalmente l’ora di superare le strettoie delle categorie di svantaggino racchiuse nell’art.4 della legge 381/1991 ed avviare una nuova stagione in cui sia considerato lavoratore svantaggiato ogni lavoratore che sia da tempo prolungato, 1 anno, fuori dal mercato del lavoro e che abbia delle caratteristiche sociali tali da rendere molto fragili le possibilità di una futura inclusione lavorativa in assenza di un incentivo fiscale.

La cura del territorio

Sono stati presentati negli anni diversi disegni di legge per l’assegnazione dei terreni demaniali. Il Demanio dispone di ampie zone del territorio, spesso in comproprietà con enti territoriali come Regioni o Comuni. Laddove ci sono state assegnazioni di terreno spesso ci si ritrova confrontati con gravi problemi burocratici legati alla titolarità dei terreni e alla titolarità delle competenze tra enti assegnatari. Alcune proposte di legge sono andate nella direzione della vendita a giovani agricoltori di questi terreni o in ultimo alla vendita tout court. Se da una parte si invoca una maggiore sovranità alimentare, dall’altra le politiche di promozione delle produzioni di qualità (il Biologico su tutte), sono sempre molto di impatto mediatico ma di pochissimo impatto reale. Legare le produzioni agricole del territorio, alla creazione di posti di lavoro per persone oggi escluse dal mercato del lavoro, potrebbe rappresentare una svolta per valorizzare al meglio l’incredibile patrimonio territoriale italiano in una logica generativa ed inclusiva.

Proposte per un’agricoltura inclusiva

1. legare l’assegnazione di terreni pubblici (nella forma di concessione pluriennale gratuita) a soggetti aggregativi (cooperative, associazioni, etc.) costituiti da persone senza un lavoro o con un lavoro precario, per avviarli alla produzione in agricoltura biologica. Legare questi soggetti al territorio attraverso la partnership di associazioni di consulenza e formazione che conducano le startup agricole biologiche al mercato locale. Per rendere possibile l’attuazione della proposta si rende necessaria una semplificazione burocratica per la gestione dei permessi laddove gli enti coinvolti sono più di uno. In tal senso urge armonizzare il Servizio della Banca delle Terre organizzato da Ifel ed Anci in risposta ad una delle misure del Decreto Mezzogiorno;

2. la legge del 12 marzo 1999 n.68 modificata dal Jobs Act è volta a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone disabili. Sopra i 15 dipendenti scatta in automatico l’obbligo di inserire in organico persone disabili, fatto salvo per una serie di deroghe legate alla tipologia d’impresa, di lavoro e della condizione economica dell’azienda. Le aziende che non intendono assumere persone disabili sono obbligate a pagare 30,64 euro al giorno per ogni lavoratore non assunto, ma questo non genera nulla per l’azienda i soldi raccolti vanno in un fondo Inail ma non rientrano in circolo. La nostra proposta è di dare la possibilità all’azienda che decide di non assumere persone disabili di spendere questi quasi 7000 euro all’anno per ogni non assunto, per l’acquisto di prodotti di realtà Biosociali del territorio a beneficio dei propri dipendenti. Questo favorirebbe la possibilità indiretta di creare posti di lavoro nelle realtà BioSociali stesse, di legare le imprese al territorio agricolo e di ottimizzare la filiera corta per le aziende agricole BioSociali. Questo meccanismo rimetterebbe a valore quello che oggi è visto dalle imprese solo come un orpello;

3. allargare la platea dei soggetti considerati svantaggiati per l’agricoltura sociale a cui vengono riconosciuti incentivi fiscali per la loro regolarizzazione

Nuovi consumi per un green new deal sociale

Considerata l’eccezionalità auspichiamo che l’emergenza relativa all’iscrizione al Bando Mense Biologiche per l’anno 2020/2021 (DM 4771/2017) tenga conto del giusto tempo necessario alle amministrazioni per partecipare al bando e dei giusti fondi senza i quali è impensabile raggiungere dei risultati rilevanti. Il ruolo del bio nelle mense scolastiche è un investimento sulla salute dei nostri bambini e quindi di tutta la collettività. Per questo chiediamo al Governo, protagonista recente di un taglio drastico ai fondi stanziati dalla legge Mense Biologiche, di invertire la rotta e proseguire lungo il percorso virtuoso iniziato precedentemente.
Il Fondo che premia le realtà che utilizzano almeno il 70% di alimenti bio nei menù scolastici è infatti passato drasticamente nel 2020 da 10 a 5 milioni annui.

Bisognerà invertire la tendenza degli anni passati, considerato che la norma oltre a garantire cibo bio, prevede anche premi per chi usa materie prime bio prodotte entro il raggio di 150 km dalla stessa mensa, per iniziative di educazione alimentare e per il recupero di prodotti non somministrati da destinare gratuitamente a organizzazioni benefiche o a individui indigenti. Per non parlare dell’effetto moltiplicatore che coinvolge i giovani utenti, genitori e familiari, istituzioni, e potrebbe veramente rafforzare il mondo della produzione bio locale e della trasformazione, catering, ovvero una buona parte della filiera bio agroalimentare nazionale.

La legge, al suo terzo anno di attività, è il primo provvedimento nazionale che riconosce e sostiene una realtà di eccellenza del nostro Paese, sviluppata grazie all’impegno di amministratori, produttori, genitori e scuola. Si può affermare che integrare un menù scolastico con almeno il 70% di derrate bio ha un costo aggiuntivo del 20%. Non avere alcun aggravio di costo ha sicuramente incoraggiato quei Comuni ancora incerti e consolidato le realtà che già erano solidamente assestate su percentuali superiori (chi sceglie di introdurre il bio nelle mense scolastiche difficilmente torna indietro). I risultati sono chiari e forti: già nel primo anno di attività del Fondo (2017/2018) le mense biologiche sono cresciute del 7,2%, contro l’1,8% dell’anno precedente, in cui il Fondo non era ancora attivo, raggiungendo 1.405 realtà censite, contro le 1.311 del 2017 (dati BioBank). Sono inoltre evidenti altri positivi effetti a cascata del ricorso alle mense biologiche: dalla gestione del territorio, a un mercato del lavoro locale stabile in cui l’occupazione agricola diretta ed indiretta è consolidata, dalla valorizzazione della biodiversità alla riduzione della CO2 dovuta alla riduzione dei trasporti a fini commerciali.

I Criteri Ambientali Minimi

Al fine di raggiungere gli obiettivi definiti nell’ambito del Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione adottato ai sensi dell’art. 1, c. 1126 e 1127 della L. n. 296/2006 con decreto del ministro dell’Ambiente della tutela del territorio e del mare di concerto con il ministro dello Sviluppo economico e dell’Economia e delle finanze 11 aprile 2008, è urgente definire i cosiddetti Criteri Ambientali Minimi (di seguito, Cam) per l’affidamento del servizio di ristorazione collettiva e per la fornitura di derrate alimentari e evidenziano alcune indicazioni che dovrebbero tenere in considerazione le diverse stazioni appaltanti per rafforzare la loro efficacia.
I Criteri Ambientali Minimi sono una sintesi di procedure che disciplinano diversi aspetti ambientali lungo il ciclo di vita dei servizi di ristorazione collettiva, dalla produzione delle derrate, alla loro distribuzione, al loro confezionamento, alla preparazione dei pasti, allo smaltimento dei rifiuti generati, proponendo soluzioni migliorative dal punto di vista ambientale lungo tutto il processo. 

li obiettivi del Cam sono stati individuati a partire dall’analisi degli impatti ambientali generati in ogni fase dell’espletamento del servizio, tenendo in considerazione il contesto di mercato e i modelli organizzativi della ristorazione collettiva e differenziandoli a seconda dei diversi settori e utenti destinatari del servizio stesso. 

Gli aspetti sociali di cui si è tenuto conto nella redazione del Cam riguardano, in particolar modo:
1. ➢le condizioni dei lavoratori, specie quelli stagionali, nelle aziende agricole al fine di evitarne lo sfruttamento, in particolare ricorrendo solo alle aziende agricole che abbiano completato l’iscrizione presso l’Inps al registro dell’Agricoltura di qualitativo ;
2. ➢il sostegno, in via indiretta, alle economie locali e ai piccoli produttori attraverso l’introduzione di prodotti a km zero e a filiera corta;
3. ➢il margine di profitto per le imprese di ristorazione e per gli agricoltori, al fine di riconoscere un compenso equo;
4. ➢le popolazioni caratterizzate da povertà ed insicurezza alimentare, affinché non siano private di preziose risorse alimentari per soddisfare i consumi delle popolazioni con maggiori risorse;
5. ➢il ricorso a prodotti provenienti dal commercio equo e solidale;
6. ➢l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate o diversamente abili, al fine di garantir loro, in via indiretta, occasioni di integrazione sociale e di benessere.
Infine, al fine di promuovere indirettamente la possibilità di impiego e di occasioni di benessere a favore di determinati soggetti svantaggiati, con uno specifico criterio premiante si favoriscono i prodotti provenienti da aziende dedite all’agricoltura sociale, vale a dire aziende riconosciute da Regioni e Province autonome ai sensi della L. 18 agosto 2015, n. 141, che si impegnano ad assumere o ad offrire occasione di benessere, formazione ed inclusione sociale a soggetti diversamente abili o che vivono in situazioni di disagio, di emarginazione o di svantaggio.

Le proposte per le filiere di approvvigionamento pubblico:

1. promuovere una misura straordinaria nazionale di concreto sostegno dell’agricoltura sociale, considerato che molte Regioni non hanno bandito le misure del Psr specificatamente previste per l’agricoltura sociale, con precise linee guida alle Regioni o in accordo con la Conferenza Stato – Regioni;
2. riconoscere le fattorie sociali come “presidi di comunità essenziali” per i comuni e le comunità, per incentivarne l’utilizzo degli spazi da parte della comunità attraverso convenzioni comunali, anche nei nuovi piani per la scuola del dopo emergenza Covid-19;
3. rendere finalmente operativo il dettato dell’art. 6 della L. 141/2015 che riconosce una corsia preferenziale ai prodotti di agricoltura sociale inerenti le forniture a mense scolastiche e appalti pubblici di fornitura, con precise linee guida per le Regioni o con un accordo con la Conferenza Stato – Regioni, con l’utilizzo ordinario della clausola sociale (che prevede specifici impegni di inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati) in alternativa agli appalti al massimo ribasso;
4. tenere conto della disponibilità immediata di strutture di agricoltura sociale per realizzare pene alternative alla detenzione, anche di minori;
5. riconoscere misure legislative speciali per il riconoscimento dei lavoratori stagionali nell’agricoltura sociale che hanno bisogno di una regolare forma contrattuale non solo per la tutela ordinaria del diritto del lavoro ma anche per l’accesso ad ulteriori forme di diritto, come il permesso di soggiorno per lavoratori immigrati, il beneficio delle misure alternative per i detenuti e per tutti coloro che devono scontare misure penali che limitano la libertà individuale, il riconoscimento di appositi voucher per studenti che vogliano sperimentarsi in una stagione agricola.

La terra come bene comune

Il decreto sui flussi migratori ha bloccato a numeri irrisori da quasi venti anni (meno di 35mila ingressi l’anno) la regolarizzazione dei lavoratori agricoli: è necessario ed urgente aggiornare in maniera ponderosa il decreto flussi per la dignità delle persone, per la tutela che meritano e per la tutela della stessa economia agricola italiana, oggi aggrappata a sistemi di lavoro grigio e nero.
Attualmente i lavoratori migranti rappresentano l’8% della forza lavoro complessiva in Italia, ma questi 11 milioni di lavoratori non sono il frutto di una buona programmazione quanto di un succedersi di eventi che hanno portato ad avere una forza lavoro di gran lunga superiore ai numeri programmati nei decreti flussi. Ma una larga fetta di lavoratori che in questi anni ha mantenuto la vitalità economica in Italia supera l’8% e sono i lavoratori che non vengono mai regolarizzati perché assunti con contratti stagionali correlati ai tempi di produzione.

La regolarizzazione dei lavoratori stagionali deve essere solo un punto di partenza in un percorso che deve puntare al riconoscimento complessivo della filiera agricola quale filiera di “cittadinanza”.
Le ragioni per cui questa posizione così lineare e lapalissiana è tanto osteggiata è da collegarsi alla paura di aprire sanatorie permanenti (visto che il flusso di lavoratori stagionali sarà costante) e di trovarsi migliaia di nuovi cittadini con la disoccupazione stagionale per il resto dell’anno.
Per questa ragione proponiamo che vengano valorizzate le filiere dell’agricoltura di qualità iscritte nella piattaforma Inps grazie alla legge di contrasto al Caporalato attraverso due modalità: l’approvvigionamento pubblico (carceri, ospedali, mense scolastiche ed universitarie) solo dalle filiere certificate Inps e solo se tali filiere costituiscono reti di produttori tra agricoltura tradizionale iscritte alla certificazione Inps e filiere biologiche e sociali, ai fini del mantenimento di prese in carico dei braccianti agricoli che durino tutto l’anno e la possibilità di una formazione permanente. Il favore accordato a queste filiere consentirebbe che il prezzo di questa operazione sia distribuito in parte sul consumatore pubblico ed in parte sul consumatore privato.
La presa in carico della persona migrante e del suo nucleo familiare potrebbe concretizzarsi in attività di integrazione (corretta alfabetizzazione, orientamento, altre azioni proprie di un progetto personalizzato di integrazione) ed in una formazione continua sulle tecniche agricole ecocompatibili.
Sarebbero da incentivare quelle realtà che permettono l’emersione di queste persone dall’oblio della clandestinità e che accompagnino il lavoratore ad essere un contribuente in regola che adempie a tutti i doveri e possa godere di tutti i diritti, come cittadino regolarizzato.

Tale processo di inclusione attraverso l’agricoltura inclusiva potrebbe avere un altro momento di sviluppo nel riconoscere a proprietari terrieri di terreni incolti (ad es. chi ha ereditato terreni agricoli ma oggi non vive di agricoltura) e ad enti del Terzo settore che operano nell’ambito dell’agricoltura, particolari sgravi fiscali ed incentivi affinché possano rendere quei terreni produttivi e si possa incentivare la circolazione delle terre a nuovi proprietari che le renderebbero non solo produttive ma inclusive ed inspirate a criteri di economia sostenibile.
Tali agevolazioni potrebbero essere date comprovando che il terreno ritorni ad essere produttivo dopo non esserlo stato per un tempo determinato e soprattutto modificando il sistema del rilascio dei titoli Agea, non più collegati ai “terreni tenuti in ordine” ma all’indice occupazionale reale di quei terreni. Il contributo economico dell’Europa sui titoli dovrebbe essere indirizzato solo a quei proprietari terrieri che rispettano certi criteri di sviluppo sostenibile ed occupazione. Oggi quei titoli sono il primo grande ostacolo alla cessione delle terre, perché comportano per il proprietario attuale la rinuncia ad una fonte certa di guadagno che si realizza in base al numero di ettari posseduti e non in base all’occupazione ed alla produzione che quegli ettari realizzano Entrambi le azioni proposte potrebbero essere supervisionate da gruppi ispettivi composti da persone addette ai lavori nell’ambito dell’agricoltura sociale, nell’ambito del Terzo settore e nell’ambito della tutela dei lavoratori.

Le richieste:
1. aggiornamento del decreto flussi per lavoratori ordinari e stagionali con una definizione minima di 100.000 ingressi annui, in linea con le regolarizzazioni avvenute e le accoglienze di richiedenti asilo per ragioni di protezione umanitaria, riconosciute in questi ultimi 7 anni;
2. incentivare la cessione delle terre all’agricoltura inclusiva e sociale, sia con una fiscalità di favore per le cessioni sia disincentivando l’uso distorto dei titoli della Pac europea che spinge molti proprietari terrieri a conservare la proprietà al solo fine di godere degli incentivi finanziari per la messa in ordine dei terreni. La Pac dovrebbe dotarsi di apposite misure per le aree spopolate connesse al legame tra possesso della terra e neopopolamento delle aree rurali.

I Budget di Salute Ambientale

Attivare un sistema di controllo ambientale volontario di territorio, di prodotto e di processo. Il sistema è finalizzato a promuovere la qualità, la sicurezza del territorio e delle produzioni, garantendo la trasparenza sia per gli operatori sia per i consumatori: un percorso virtuoso con strumenti condivisi e metodi partecipativi di promozione della salute dei cittadini e di riqualificazione dell’ambiente e dei suoi prodotti. Una tutela reale, dunque, della salute degli abitanti e dei consumatori, garantita non in maniera formale, ma sostanziale con la redazione di Bilanci Partecipativi e di Profili di Comunità (Capitale Sociale) sulla base del progetto “Città Sane” dell’Oms

1. attivazione di modelli operativi di tracciabilità territoriale e qualitativa con data-base di dati ambientali, sociosanitari, epidemiologici su un dato territorio con l’adesione volontaria dei Comuni (o Uti);
2. attivazione di sistemi di certificazione di prodotti e territori di origine a garantire sicurezza alimentare e promozione di sostenibilità ambientale e sociosanitaria per politiche locali;
3. attivazione di modelli informatici georeferenziati per rintracciabilità permanente di prodotti certificati e conoscenza di territori d’origine;
4. attivazione di profili di comunità territoriale per Comune (o Uti), costituiti da indicatori integrati a partire dai Budget di Salute per analizzare condizioni ambientali e sociosanitarie dei territori;
5. attivazione di bilanci partecipativi sociosanitari ed
ambientali per Comune (o Uti) strumenti di programmazione di politica territoriale a partire dai Budget di Salute ;
6. attivazione dell’Osservatorio Bioepidemiologico per ricerca ed analisi epidemiologiche, valutazioni scientifiche e promozione di welfare comunitario
7. definizione del Piano di Monitoraggio dei fattori di rischio ambientale e dello stato di salute della popolazione;
8. definizione dei criteri di valutazione per rilascio MQSt e costruzione del sistema di auditing sul MQSt ;
9. costruzione del modello di procedura per rilascio MQSp per prodotti primari e agroalimentari ;
10.strutturazione di un software per realizzazione del sistema informatico georeferenziato di tracciabilità dei prodotti con interfaccia web integrata;
11. definizione del modello di profilo di comunità territoriale a partire dai Budget di Salute per analizzare le condizioni ambientali e sociosanitarie dei territori;
12. definizione del modello di bilancio partecipativo sociosanitario ed ambientale a partire dai Budget di Salute.